"Doc – Nelle tue mani. Il romanzo ispirato alla seconda stagione" svelato dal suo autore, il "vero" Doc Pierdante Piccioni
Nell'opera, i retroscena fra il dottor Andrea Fanti (Luca Argentero), la moglie Agnese (Sara Lazzaro) e la virologa Cecilia Tedeschi (Alice Arcuri).
Edito da Mondadori, è uscito ieri, martedì 22 marzo 2022, "Doc – Nelle tue mani. Il romanzo ispirato alla seconda stagione", un libro tratto dalla serie campione di ascolti su Rai 1 prodotta da Lux Vide in collaborazione con Rai Fiction.
Dopo il successo della prima stagione di Doc - Nelle tue mani, la fiction ispirata alla storia vera del medico lombardo Pierdante Piccioni, arriva finalmente anche il romanzo ufficiale della seconda stagione, scritto dallo stesso Pierdante Piccioni insieme al giornalista Pierangelo Sapegno e agli sceneggiatori della serie televisiva Francesco Arlanch e Viola Rispoli.
Il "vero" Doc, Pierdante Picconi, è originario della provincia di Cremona (è cresciuto a Levata di Grontardo), ma vive a Pavia e se nel suo primo libro "Meno dodici", l'oggi 63enne specialista raccontava in prima persona la sua incredibile esperienza di vita - dodici anni di memoria cancellati in seguito a un incidente d'auto - poi trasposta (in forma romanzata) sul piccolo schermo da Luca Argentero, questa volta Pierdante Piccioni è tornato a vestire i panni dello scrittore cimentandosi in un'impresa letteraria però molto diversa.
Che lui stesso ha accettato di raccontare in questa intervista esclusiva.
Doc – Nelle tue mani. Il romanzo ispirato alla seconda stagione
Professore, Meno Dodici (uscito nel 2016) era la storia della sua vita: al di là del soggetto di partenza, in realtà c’era una certa distanza rispetto alla vicenda del suo omologo televisivo Andrea Fanti. Nel frattempo sono usciti anche Pronto soccorso (2017), In prima linea (2020) e Colpevole di amnesia (2020), nei quali è proseguito il racconto in prima persona della sua straordinaria esperienza. Quest’ultimo invece è un “romanzo ispirato alla seconda stagione”: che cosa racconta?
Il termine tecnico, l'ho imparato anch'io, è tie-in, cravatta. Cioè, se finora la serie televisiva è stata tratta da una sceneggiatura, in questo romanzo, invece, partendo dalla sceneggiatura ci siamo divertiti ad approfondire le storie di alcuni personaggi in particolare: l’idea era svelare cosa sta dietro al rapporto (che poi è uno dei fili conduttori della serie) fra il dottor Andrea Fanti (Luca Argentero), la moglie Agnese Tiberi (Sara Lazzaro) e la virologa Cecilia Tedeschi (Alice Arcuri).
Quindi dalla sua storia personale a una vera e propria opera di fiction.
Abbiamo ricostruito le relazioni tra loro tre, compagni di corso ai tempi dell’Università… e come tutti sanno le amicizie in giovane età sono quelle che nel bene nel male ti lasciano il segno. Se poi parliamo di amicizie che si trasformano in affetti, se non addirittura in amore o innamoramento, è evidente che qualcosa di interessante da raccontare c’è, eccome.
Ci è parso interessante sapere qualche cosa di più del perché della durezza di Cecilia e del perché dei rapporti complicati fra loro tre (che solo in parte si intuiscono nella serie): insomma, un romanzo imperdibile, se si vuole capire anche certe frasi o atteggiamenti, o anche tanti silenzi. C’è tutto un background di amori, di fughe, di ritorni, di vita.
Il cameo in una puntata di Doc 2
Tra l'altro Pierdante Piccioni non è solo l'autore del libro ispirato alla seconda serie di Doc, ha anche contribuito attivamente alla stesura della sceneggiatura delle puntate (soprattutto per la parte clinica), ma s'è concesso pure un ruolo da attore in un significativo "cameo".
Quando il dottor Fanti viene esaminato dalla commissione che deve stabilire se può tornare o meno a fare il primario, è proprio il "vero" Doc a interpretare uno dei medici che devono giudicarlo. Una partecipazione volutamente paradossale, considerando che Piccioni s'è proprio trovato in una situazione del tutto analoga.
Da Meno dodici a oggi: cos’è successo nel frattempo
L’abbiamo lasciata alla fine del primo libro con la riassegnazione al Pronto soccorso di Codogno nel 2014, più di un anno dopo l’incidente che le ha cancellato 12 anni di memoria. Proprio come “Doc”, era riuscito a tornare primario. Poi, da allora oggi, cos’è successo?
Ho fatto il primario del Pronto soccorso di Codogno per due anni, poi mi sono reso conto che per la disabilità - perché 12 anni di amnesia non recuperata se non grazie ai ricordi degli altri sono comunque una grave disabilità - consumavo troppe energie nel voler dimostrare di essere quello di prima: questo è uno degli errori metodologici che ho imparato a provare a superare.
Lo facciamo tutti in fondo, vorremmo che il mondo tornasse quello di prima, che noi tornassimo quelli di prima. Invece quando riesci a capire che sei un'altra persona, quando fai un po' i conti con te stesso, allora riesci a ritrovare l'equilibrio.
Comunque è rimasto all'interno della Asst di Lodi (come responsabile del servizio “Integrazione ospedale-strutture sanitarie territoriali e appropriatezza della cronicità”) e non ci pensa proprio di andare in pensione…
No, perché mi sto divertendo troppo e ho la fortuna di avere dei collaboratori con i quali mi diverto tutte le mattine a venire a lavorare… I miei figli (potente nel primo libro la narrazione del rapporto con loro, dato che se li ritrova dall’oggi al domani adulti, mentre erano ancora bambini negli ultimi ricordi lasciati intatti dall’amnesia), che mi chiamano ancora Savio, dicono sempre, scherzando: “Non ce la racconti giusta: vai ancora a lavorare perché sennò che storie avresti da raccontare?”.
Il mio lavoro ora è occuparmi dei percorsi post acuti, cioè se prima al Pronto soccorso accoglievo i pazienti acuti per ricoverarli in ospedale, adesso dall’ospedale - pazienti Covid compresi, coi quali stiamo facendo un lavoro enorme - troviamo il percorso migliore per loro, quando iniziano a migliorare: che sia una riabilitazione, che sia una casa famiglia, che sia assistenza a domicilio, con una particolare attenzione per i disabili che sono quelli che hanno maggior bisogno del percorso personalizzato.
Inimmaginabile il trauma nello svegliarsi dopo l’incidente, considerando che il suo “ieri” in realtà era un giorno di dodici anni prima e che i ricordi nel mezzo erano spariti. E nel frattempo c'è stata una rivoluzione tecnologica, fra internet e cellulari. Secondo un sondaggio, 6 persone su 10 al giorno d’oggi non ce la fanno a vivere un giorno senza smartphone: in Meno dodici è bellissimo il racconto di lei, alieno atterrato su un altro pianeta, che guardava i terrestri con questa inedita prolunga tecnologica sempre nella mano: si è abituato?
Ci provo, ma i miei figli e i miei collaboratori fanno certe facce quando faccio delle domande assolutamente da millennio scorso… Mi guardano sconsolati, allargano le braccia e dicono “Cià, faccio io va”. Per noi gli analogici è tutto un po’ più complicato, ma ora ho fatto pace sia con lo smartphone che col Telepass…
La “morale” del libro era che l’amnesia alla fine è stata un’occasione non tanto per tornare a essere come prima, ma per essere addirittura migliore del combattivo primario “Robin Hood” che era una volta: alla fine è stato davvero così?
Quello che pensavo fosse un problema, una sfiga, è diventato una sfida: è bastato cambiare una consonante. E’ quello che che tutti dovremmo fare come esperienza: scoprire i propri limiti e le risorse per superarli. Non è coraggioso chi non conosce la paura, ma chi la conosce e la supera: in questo senso, essere diventato un paziente, passare dall'altra parte della barricata, mi ha completamente cambiato il punto di vista.
E’ quel tragico e stupendo “conflitto di interessi” che tuttora vivo, quello di pensare ai pazienti mettendoli comunque nei panni del mio migliore amico, di mio papà, di mia sorella: cosa farei per loro?
La seconda serie di Doc (anche) per non dimenticare il Covid
Non solo lo “spin off” letterario da oggi nelle librerie: sempre insieme agli autori Arlanch e Rispoli, avete anche scritto insieme il copione di una seconda serie da record in termini di ascolti e gradimento. E’ stata particolarmente apprezzata la delicatezza con cui siete entrati in punta di piedi nella narrazione del Covid, perché nelle prime puntate la pandemia ha fatto solo capolino, pur raccontando molto bene ad esempio il passaggio degli oggetti non sanificati dalle mani di un medico all’altro, un aspetto al quale all’epoca neppure pensavamo. Nelle puntate successive invece, fra letti e bombole mancanti e drammi uno dietro l’altro, ci avete riportati con la memoria a momenti che in qualche modo abbiamo dovuto dimenticare per preservare la nostra sanità mentale.
Sì, è vero, nelle prime puntate, il ragionamento è stato: se glielo sbattiamo in faccia a muso duro, scappano. Ma è un po' quello che diceva il buon vecchio Aristotele qualche migliaio di anni fa, la catarsi delle passioni: se tu non rappresenti i tuoi fantasmi, non li vinci.
Ci siamo chiesti se il pubblico non fosse stufo del Covid. E io ho fatto una battuta che ha commosso un po’ tutti gli sceneggiatori: dobbiamo farlo per non dimenticare… e ve lo dice un amnesico! Da un omaggio alle migliaia di vittime non si poteva prescindere: come si fa al Policlinico Ambrosiano a non parlare di quello che è stato? Alla fine siamo stati la prima serie in Italia a parlare della pandemia.
Quando è scoppiata, lavoravo fra Codogno (quella Codogno!) e Lodi… in questi due anni ho perso oltre ai pazienti, 11 persone care, fra amici e colleghi a cui davo del tu: è un bollettino di guerra. Quando andavo con la macchina dell’ospedale da Sant'Angelo Lodigiano a Lodi, la gente mi applaudiva dai balconi e non sapevano nemmeno chi fossi… da eroi poi siamo passati ad essere minacciati come vaccinatori.
Volevamo far capire che cosa è stato davvero dietro le quinte perché poi quel racconto secondo me è mancato. Abbiamo voluto raccontare che cosa è stata la guerra del Covid per provare a far capire cosa sia stata soprattutto dal punto di vista dei sanitari. E anche tanti miei colleghi poi mi hanno ringraziato, commossi, per questo.
Per convincere i No vax, valgono di più le lezioni di Burioni a Che tempo che fa o una puntata di Doc?
Da prefrontale direi Doc tutta la vita... ma anche le lezioni di Burioni sono state molto molto belle, qualcuna l’ho seguita. In realtà servirebbero entrambe le cose: uno dei grossi problemi è che ci si è fatti un’opinione inizialmente non su dati scientifici ma su impressioni (me l’ha detto il vicino… l’ho letto su Instagram), una maggiore scientificità è fondamentale, anche se i no vax duri e puri non li convinci comunque…
Rimanendo sul “potere della tv”. Le serie medical sono sempre molto apprezzate dal pubblico, dai tempi di Clooney fino a The Good Doctor. Quali sono le sue preferite?
Da “prontosoccorsista” direi ER… ma quando ti piacciono gli impressionisti, che sia Van Gogh, Renoir o Gauguin vai sul sicuro: quando c’è un medical tendo a guardarlo.
Tra l’altro a questo proposito regalo un piccolo gossip: Sony ha acquistato il format di Doc, stanno pensando a un remake con interpreti americani e un candidato è proprio Patrick Demsey, fra gli interpreti di Grey’s Anatomy.
Sono fiction che funzionano perché parlano di una realtà con cui tutti prima o poi abbiamo a che fare.
Anche in Doc quasi sempre il soggetto della puntata ruota attorno a una malattia rara o difficile da diagnosticare (come la Sindrome di Munchausen o la Malattia di Lyme nella seconda serie): in qualche modo le fiction non alimentano la sensazione che patologie così terribili possano capitare molto più frequentemente?
La fiction è anche questo: per attirare l’attenzione devi schioccare le dita e battere le mani. Ma abbiamo trattato tutti casi comunque realmente accaduti, ovviamente non tutti capitati direttamente al sottoscritto.
Sono casi che colpiscono, emblematici, e a volte servono anche per mandare un messaggio: per esempio nell’ultima puntata abbiamo affrontato il tema dell’uso sconsiderato degli antibiotici che negli anni ha sviluppato batteri purtroppo sempre più resistenti ai farmaci.
Sì, ma il pubblico può benissimo pensare: se i protagonisti di Doc fanno tanta fatica a risolvere la situazione, e loro sono dei “super medici”, riuscire a sopravvivere in un ospedale “normale” (soprattutto alla luce della nomea della sanità pubblica, in alcuni casi non sempre immacolata) non sarà come centrare un terno al lotto?
In Doc rimaniamo sempre attinenti alla realtà: anche i medici di Doc muoiono, sbagliano, anche lo stesso Doc sbaglia, abbiamo visto, per eccesso di empatia. Bisognerebbe prendere Doc e Cecilia e shakerarli per trovare il medico da clonare… o meglio ancora farli lavorare in squadra.
E infatti, il personaggio di Cecilia Tedeschi delega agli specialisti tutto quello che può, Doc invece vuole conoscere da vicino il paziente: quanto c’è di lei in questi approcci?
Tantissimo: da quel che mi hanno raccontato, io sono mutato dalla Tedeschi in Fanti, e questo proprio perché sono diventato paziente… Anche questo aspetto è un po’ romanzato, in realtà non ero così carogna (anche se mi chiamavano “principe bastardo” che non è proprio onorevole come nickname…). Però davvero è l’equilibrio, il mix di entrambe le cose che fa ottenere dei risultati: Fanti come me ha capito che è meglio stare zitti e ascoltare piuttosto che parlare a vanvera a e noi medici dovremmo ricordarci che il primo cardine della professione dovrebbe essere proprio ascoltare il paziente. Per altro si chiama anamnesi ed è la prima cosa che ci insegnano a medicina.
I contrasti primario/direzione sono il leit motiv di questa seconda serie: leggendo Meno dodici si può dire che lei ne sa qualcosa… Anche se la burocrazia nella realtà è stata per lei forse più dura che nella fiction per Fanti: i tempi, le formalità, le infinite attese, i silenzi. Ma comunque Doc vuole riprendersi il suo posto da primario a tutti i costi, anche rischiando… quanto c’è di lei nel soggetto?
E’ assolutamente autobiografico: tra l’altro non è finita, vedremo cosa succederà in Doc 3!
Fanti pensa che tornare come prima sia la soluzione, si rende conto però a poco a poco che tornare primario non significa tornare quello di prima. Nell’ultima scena della seconda serie, quando va ad accogliere gli specializzandi, diventa un po’ un pater familias, responsabile del “suo” branco senza esserne il padrone, sapendo di dover donare le proprie capacità in un mix di scienza e empatia.
La figlia di Doc nella serie fa anche lei il medico: e i due figli che la chiamano ancora Savio?
Uno fa lo psicologo del lavoro e l’altro il personal trainer: scelte diverse, ma ricordo che i figli non sono i sogni dei genitori…
Anche se quando si è risvegliato non lo ricordava, era un super medico: primario, consulente del ministero, presidente di associazioni e fondazioni mediche internazionali. Però, diciamocelo, alla fine è un “figo” anche adesso, anche se per motivi diversi. Insomma, la classe non è acqua: ma è soddisfatto di quello che è diventato?
Racconto un episodio recentissimo e freschissimo, che mi ha commosso. Ho visto l’ultima puntata con mio figlio Tommaso, mentre Filippo era a casa con la sua compagna: beh, entrambi, senza essersi messi d’accordo, mi hanno detto “Savio, sono fiero di te”, insomma esattamente l’obiettivo raggiunto per un papà.
PIERDANTE PICCIONI DURANTE LE RIPRESE DI DOC:
Edito da Mondadori, è uscito ieri, martedì 22 marzo 2022, "Doc – Nelle tue mani. Il romanzo ispirato alla seconda stagione", un libro tratto dalla serie campione di ascolti su Rai 1 prodotta da Lux Vide in collaborazione con Rai Fiction.
Dopo il successo della prima stagione di Doc - Nelle tue mani, la fiction ispirata alla storia vera del medico lombardo Pierdante Piccioni, arriva finalmente anche il romanzo ufficiale della seconda stagione, scritto dallo stesso Pierdante Piccioni insieme al giornalista Pierangelo Sapegno e agli sceneggiatori della serie televisiva Francesco Arlanch e Viola Rispoli.
Il "vero" Doc, Pierdante Picconi, è originario della provincia di Cremona (è cresciuto a Levata di Grontardo), ma vive a Pavia e se nel suo primo libro "Meno dodici", l'oggi 63enne specialista raccontava in prima persona la sua incredibile esperienza di vita - dodici anni di memoria cancellati in seguito a un incidente d'auto - poi trasposta (in forma romanzata) sul piccolo schermo da Luca Argentero, questa volta Pierdante Piccioni è tornato a vestire i panni dello scrittore cimentandosi in un'impresa letteraria però molto diversa.
Che lui stesso ha accettato di raccontare in questa intervista esclusiva.
Doc – Nelle tue mani. Il romanzo ispirato alla seconda stagione
Professore, Meno Dodici (uscito nel 2016) era la storia della sua vita: al di là del soggetto di partenza, in realtà c’era una certa distanza rispetto alla vicenda del suo omologo televisivo Andrea Fanti. Nel frattempo sono usciti anche Pronto soccorso (2017), In prima linea (2020) e Colpevole di amnesia (2020), nei quali è proseguito il racconto in prima persona della sua straordinaria esperienza. Quest’ultimo invece è un “romanzo ispirato alla seconda stagione”: che cosa racconta?
Il termine tecnico, l'ho imparato anch'io, è tie-in, cravatta. Cioè, se finora la serie televisiva è stata tratta da una sceneggiatura, in questo romanzo, invece, partendo dalla sceneggiatura ci siamo divertiti ad approfondire le storie di alcuni personaggi in particolare: l’idea era svelare cosa sta dietro al rapporto (che poi è uno dei fili conduttori della serie) fra il dottor Andrea Fanti (Luca Argentero), la moglie Agnese Tiberi (Sara Lazzaro) e la virologa Cecilia Tedeschi (Alice Arcuri).
Quindi dalla sua storia personale a una vera e propria opera di fiction.
Abbiamo ricostruito le relazioni tra loro tre, compagni di corso ai tempi dell’Università… e come tutti sanno le amicizie in giovane età sono quelle che nel bene nel male ti lasciano il segno. Se poi parliamo di amicizie che si trasformano in affetti, se non addirittura in amore o innamoramento, è evidente che qualcosa di interessante da raccontare c’è, eccome.
Ci è parso interessante sapere qualche cosa di più del perché della durezza di Cecilia e del perché dei rapporti complicati fra loro tre (che solo in parte si intuiscono nella serie): insomma, un romanzo imperdibile, se si vuole capire anche certe frasi o atteggiamenti, o anche tanti silenzi. C’è tutto un background di amori, di fughe, di ritorni, di vita.
Il cameo in una puntata di Doc 2
Tra l'altro Pierdante Piccioni non è solo l'autore del libro ispirato alla seconda serie di Doc, ha anche contribuito attivamente alla stesura della sceneggiatura delle puntate (soprattutto per la parte clinica), ma s'è concesso pure un ruolo da attore in un significativo "cameo".
Quando il dottor Fanti viene esaminato dalla commissione che deve stabilire se può tornare o meno a fare il primario, è proprio il "vero" Doc a interpretare uno dei medici che devono giudicarlo. Una partecipazione volutamente paradossale, considerando che Piccioni s'è proprio trovato in una situazione del tutto analoga.
Da Meno dodici a oggi: cos’è successo nel frattempo
L’abbiamo lasciata alla fine del primo libro con la riassegnazione al Pronto soccorso di Codogno nel 2014, più di un anno dopo l’incidente che le ha cancellato 12 anni di memoria. Proprio come “Doc”, era riuscito a tornare primario. Poi, da allora oggi, cos’è successo?
Ho fatto il primario del Pronto soccorso di Codogno per due anni, poi mi sono reso conto che per la disabilità - perché 12 anni di amnesia non recuperata se non grazie ai ricordi degli altri sono comunque una grave disabilità - consumavo troppe energie nel voler dimostrare di essere quello di prima: questo è uno degli errori metodologici che ho imparato a provare a superare.
Lo facciamo tutti in fondo, vorremmo che il mondo tornasse quello di prima, che noi tornassimo quelli di prima. Invece quando riesci a capire che sei un'altra persona, quando fai un po' i conti con te stesso, allora riesci a ritrovare l'equilibrio.
Comunque è rimasto all'interno della Asst di Lodi (come responsabile del servizio “Integrazione ospedale-strutture sanitarie territoriali e appropriatezza della cronicità”) e non ci pensa proprio di andare in pensione…
No, perché mi sto divertendo troppo e ho la fortuna di avere dei collaboratori con i quali mi diverto tutte le mattine a venire a lavorare… I miei figli (potente nel primo libro la narrazione del rapporto con loro, dato che se li ritrova dall’oggi al domani adulti, mentre erano ancora bambini negli ultimi ricordi lasciati intatti dall’amnesia), che mi chiamano ancora Savio, dicono sempre, scherzando: “Non ce la racconti giusta: vai ancora a lavorare perché sennò che storie avresti da raccontare?”.
Il mio lavoro ora è occuparmi dei percorsi post acuti, cioè se prima al Pronto soccorso accoglievo i pazienti acuti per ricoverarli in ospedale, adesso dall’ospedale - pazienti Covid compresi, coi quali stiamo facendo un lavoro enorme - troviamo il percorso migliore per loro, quando iniziano a migliorare: che sia una riabilitazione, che sia una casa famiglia, che sia assistenza a domicilio, con una particolare attenzione per i disabili che sono quelli che hanno maggior bisogno del percorso personalizzato.
Inimmaginabile il trauma nello svegliarsi dopo l’incidente, considerando che il suo “ieri” in realtà era un giorno di dodici anni prima e che i ricordi nel mezzo erano spariti. E nel frattempo c'è stata una rivoluzione tecnologica, fra internet e cellulari. Secondo un sondaggio, 6 persone su 10 al giorno d’oggi non ce la fanno a vivere un giorno senza smartphone: in Meno dodici è bellissimo il racconto di lei, alieno atterrato su un altro pianeta, che guardava i terrestri con questa inedita prolunga tecnologica sempre nella mano: si è abituato?
Ci provo, ma i miei figli e i miei collaboratori fanno certe facce quando faccio delle domande assolutamente da millennio scorso… Mi guardano sconsolati, allargano le braccia e dicono “Cià, faccio io va”. Per noi gli analogici è tutto un po’ più complicato, ma ora ho fatto pace sia con lo smartphone che col Telepass…
La “morale” del libro era che l’amnesia alla fine è stata un’occasione non tanto per tornare a essere come prima, ma per essere addirittura migliore del combattivo primario “Robin Hood” che era una volta: alla fine è stato davvero così?
Quello che pensavo fosse un problema, una sfiga, è diventato una sfida: è bastato cambiare una consonante. E’ quello che che tutti dovremmo fare come esperienza: scoprire i propri limiti e le risorse per superarli. Non è coraggioso chi non conosce la paura, ma chi la conosce e la supera: in questo senso, essere diventato un paziente, passare dall'altra parte della barricata, mi ha completamente cambiato il punto di vista.
E’ quel tragico e stupendo “conflitto di interessi” che tuttora vivo, quello di pensare ai pazienti mettendoli comunque nei panni del mio migliore amico, di mio papà, di mia sorella: cosa farei per loro?
La seconda serie di Doc (anche) per non dimenticare il Covid
Non solo lo “spin off” letterario da oggi nelle librerie: sempre insieme agli autori Arlanch e Rispoli, avete anche scritto insieme il copione di una seconda serie da record in termini di ascolti e gradimento. E’ stata particolarmente apprezzata la delicatezza con cui siete entrati in punta di piedi nella narrazione del Covid, perché nelle prime puntate la pandemia ha fatto solo capolino, pur raccontando molto bene ad esempio il passaggio degli oggetti non sanificati dalle mani di un medico all’altro, un aspetto al quale all’epoca neppure pensavamo. Nelle puntate successive invece, fra letti e bombole mancanti e drammi uno dietro l’altro, ci avete riportati con la memoria a momenti che in qualche modo abbiamo dovuto dimenticare per preservare la nostra sanità mentale.
Sì, è vero, nelle prime puntate, il ragionamento è stato: se glielo sbattiamo in faccia a muso duro, scappano. Ma è un po' quello che diceva il buon vecchio Aristotele qualche migliaio di anni fa, la catarsi delle passioni: se tu non rappresenti i tuoi fantasmi, non li vinci.
Ci siamo chiesti se il pubblico non fosse stufo del Covid. E io ho fatto una battuta che ha commosso un po’ tutti gli sceneggiatori: dobbiamo farlo per non dimenticare… e ve lo dice un amnesico! Da un omaggio alle migliaia di vittime non si poteva prescindere: come si fa al Policlinico Ambrosiano a non parlare di quello che è stato? Alla fine siamo stati la prima serie in Italia a parlare della pandemia.
Quando è scoppiata, lavoravo fra Codogno (quella Codogno!) e Lodi… in questi due anni ho perso oltre ai pazienti, 11 persone care, fra amici e colleghi a cui davo del tu: è un bollettino di guerra. Quando andavo con la macchina dell’ospedale da Sant'Angelo Lodigiano a Lodi, la gente mi applaudiva dai balconi e non sapevano nemmeno chi fossi… da eroi poi siamo passati ad essere minacciati come vaccinatori.
Volevamo far capire che cosa è stato davvero dietro le quinte perché poi quel racconto secondo me è mancato. Abbiamo voluto raccontare che cosa è stata la guerra del Covid per provare a far capire cosa sia stata soprattutto dal punto di vista dei sanitari. E anche tanti miei colleghi poi mi hanno ringraziato, commossi, per questo.
Per convincere i No vax, valgono di più le lezioni di Burioni a Che tempo che fa o una puntata di Doc?
Da prefrontale direi Doc tutta la vita... ma anche le lezioni di Burioni sono state molto molto belle, qualcuna l’ho seguita. In realtà servirebbero entrambe le cose: uno dei grossi problemi è che ci si è fatti un’opinione inizialmente non su dati scientifici ma su impressioni (me l’ha detto il vicino… l’ho letto su Instagram), una maggiore scientificità è fondamentale, anche se i no vax duri e puri non li convinci comunque…
Rimanendo sul “potere della tv”. Le serie medical sono sempre molto apprezzate dal pubblico, dai tempi di Clooney fino a The Good Doctor. Quali sono le sue preferite?
Da “prontosoccorsista” direi ER… ma quando ti piacciono gli impressionisti, che sia Van Gogh, Renoir o Gauguin vai sul sicuro: quando c’è un medical tendo a guardarlo.
Tra l’altro a questo proposito regalo un piccolo gossip: Sony ha acquistato il format di Doc, stanno pensando a un remake con interpreti americani e un candidato è proprio Patrick Demsey, fra gli interpreti di Grey’s Anatomy.
Sono fiction che funzionano perché parlano di una realtà con cui tutti prima o poi abbiamo a che fare.
Anche in Doc quasi sempre il soggetto della puntata ruota attorno a una malattia rara o difficile da diagnosticare (come la Sindrome di Munchausen o la Malattia di Lyme nella seconda serie): in qualche modo le fiction non alimentano la sensazione che patologie così terribili possano capitare molto più frequentemente?
La fiction è anche questo: per attirare l’attenzione devi schioccare le dita e battere le mani. Ma abbiamo trattato tutti casi comunque realmente accaduti, ovviamente non tutti capitati direttamente al sottoscritto.
Sono casi che colpiscono, emblematici, e a volte servono anche per mandare un messaggio: per esempio nell’ultima puntata abbiamo affrontato il tema dell’uso sconsiderato degli antibiotici che negli anni ha sviluppato batteri purtroppo sempre più resistenti ai farmaci.
Sì, ma il pubblico può benissimo pensare: se i protagonisti di Doc fanno tanta fatica a risolvere la situazione, e loro sono dei “super medici”, riuscire a sopravvivere in un ospedale “normale” (soprattutto alla luce della nomea della sanità pubblica, in alcuni casi non sempre immacolata) non sarà come centrare un terno al lotto?
In Doc rimaniamo sempre attinenti alla realtà: anche i medici di Doc muoiono, sbagliano, anche lo stesso Doc sbaglia, abbiamo visto, per eccesso di empatia. Bisognerebbe prendere Doc e Cecilia e shakerarli per trovare il medico da clonare… o meglio ancora farli lavorare in squadra.
E infatti, il personaggio di Cecilia Tedeschi delega agli specialisti tutto quello che può, Doc invece vuole conoscere da vicino il paziente: quanto c’è di lei in questi approcci?
Tantissimo: da quel che mi hanno raccontato, io sono mutato dalla Tedeschi in Fanti, e questo proprio perché sono diventato paziente… Anche questo aspetto è un po’ romanzato, in realtà non ero così carogna (anche se mi chiamavano “principe bastardo” che non è proprio onorevole come nickname…). Però davvero è l’equilibrio, il mix di entrambe le cose che fa ottenere dei risultati: Fanti come me ha capito che è meglio stare zitti e ascoltare piuttosto che parlare a vanvera a e noi medici dovremmo ricordarci che il primo cardine della professione dovrebbe essere proprio ascoltare il paziente. Per altro si chiama anamnesi ed è la prima cosa che ci insegnano a medicina.
I contrasti primario/direzione sono il leit motiv di questa seconda serie: leggendo Meno dodici si può dire che lei ne sa qualcosa… Anche se la burocrazia nella realtà è stata per lei forse più dura che nella fiction per Fanti: i tempi, le formalità, le infinite attese, i silenzi. Ma comunque Doc vuole riprendersi il suo posto da primario a tutti i costi, anche rischiando… quanto c’è di lei nel soggetto?
E’ assolutamente autobiografico: tra l’altro non è finita, vedremo cosa succederà in Doc 3!
Fanti pensa che tornare come prima sia la soluzione, si rende conto però a poco a poco che tornare primario non significa tornare quello di prima. Nell’ultima scena della seconda serie, quando va ad accogliere gli specializzandi, diventa un po’ un pater familias, responsabile del “suo” branco senza esserne il padrone, sapendo di dover donare le proprie capacità in un mix di scienza e empatia.
La figlia di Doc nella serie fa anche lei il medico: e i due figli che la chiamano ancora Savio?
Uno fa lo psicologo del lavoro e l’altro il personal trainer: scelte diverse, ma ricordo che i figli non sono i sogni dei genitori…
Anche se quando si è risvegliato non lo ricordava, era un super medico: primario, consulente del ministero, presidente di associazioni e fondazioni mediche internazionali. Però, diciamocelo, alla fine è un “figo” anche adesso, anche se per motivi diversi. Insomma, la classe non è acqua: ma è soddisfatto di quello che è diventato?
Racconto un episodio recentissimo e freschissimo, che mi ha commosso. Ho visto l’ultima puntata con mio figlio Tommaso, mentre Filippo era a casa con la sua compagna: beh, entrambi, senza essersi messi d’accordo, mi hanno detto “Savio, sono fiero di te”, insomma esattamente l’obiettivo raggiunto per un papà.
PIERDANTE PICCIONI DURANTE LE RIPRESE DI DOC:
daniele.pirola@netweek.it